BREVE STORIA DI MONFALCONE DURANTE LA GRANDE GUERRA

La notte del 24 maggio 1915 l’Italia entrava in guerra contro l’Austria-Ungheria rompendo il patto di triplice alleanza che da tempo la univa all’Austria e alla Germania.

Nelle prime ore della notte del 24, le truppe oltrepassarono il confine fra Palmanova e Cervignano. La linea di separazione fra i due Stati allora corrispondeva pressappoco al corso del torrente Aussa-Corno, passava poco a ovest di Cormons, lasciava fuori Palmanova e includeva Cervignano fino al mare e a Porto Buso.

Fig. 1 – I bersaglieri italiani entrano a Monfalcone il 9 giugno 1915.

Arrivarono al fiume Isonzo senza trovare alcuna rilevante resistenza all’avanzata e siccome il ponte in ferro di Sagrado era stato fatto saltare dagli austriaci, costruirono una passerella appoggiata al fianco destro del ponte crollato e attraversarono il fiume al riparo dai colpi di fucileria. Per ostacolare ulteriormente l’avanzata italiana, gli austriaci escogitarono un piano geniale. Il canale “de Dottori”, inaugurato appena nel 1905 alla presenza di autorità arrivate dalla capitale Vienna, era per l’epoca un’opera di alta ingegneria e per portarla a compimento ci fu un grosso esborso economico da parte delle casse statali; il canale prendeva acqua dall’Isonzo proprio a Sagrado e percorrendo le campagne fino a Monfalcone, dove sbucava in mare, portava il prezioso liquido dove serviva.

Gli ingegneri militari austriaci, quindi, con un sistema di sbarramenti lungo il corso del canale, lo fecero esondare. Tutta la fascia di territorio fra Vermegliano e Monfalcone fu ridotta a un grande acquitrino fangoso; gli italiani, per portare l’assalto alle pendici carsiche, dovettero perciò partire da posizioni disagiate per via del fango, mentre gli avversari erano appostati in cima al ciglione carsico pronti ad accoglierli con le mitragliatrici.

All’alba del 9 giugno 1915, la brigata Granatieri avanzò da est e, in qualche modo, aggirò l’acquitrino, conquistando la quota 61 vicino alle Cave di Selz e le alture di San Polo dietro l’attuale ospedale; contemporaneamente, la brigata Messina oltrepassò Staranzano e entrò da sud in Monfalcone (Fig. 1) puntando verso la quota della Rocca dove le due brigate alle ore 08.00 si congiunsero.

Fig. 2 – Le case di Monfalcone con le lenzuola bianche ai balconi ad indicare che dentro c’erano solo civili inermi e nessun combattente armato.

Sulle alture di San Polo si ebbe uno dei primi episodi documentati di vittime da “fuoco amico”. Infatti, le artiglierie italiane situate nelle retrovie di Vermegliano, colpirono per errore i fanti italiani che andavano all’assalto. Un centinaio di granatieri caddero centrati dai propri cannoni.

Nel frattempo, gli austroungarici si erano strategicamente ritirati sulle alture carsiche subito alle spalle della città. La grande massa degli abitanti era stata fatta evacuare dalle proprie case, la maggior parte fu internata in campi profughi subito oltre l’attuale confine con l’Austria, uno fra i più grandi fu quello di Wagna.

Altri, invece, decisero di non abbandonare la città e continuarono a convivere con i colpi di artiglieria, prima italiani e poi austroungarici: per evitare di essere colpiti dalle varie artiglierie, i pochi temerari che decisero di rimanere mettevano sui balconi delle case delle lenzuola bianche distese e ben visibili in modo da far sapere che l’abitazione non era sede di comandi o forze militari (Fig. 2).

Fig. 3 – Il quadrante dell’orologio del campanile di Monfalcone abbattuto, fermo sull’ora del crollo.

Nonostante lo stratagemma, Monfalcone fu pesantemente bombardata, poche abitazioni si salvarono, perfino il campanile – che allora con l’annessa chiesa si trovava nell’attuale via San Ambrogio poco prima della confluenza sul Viale San Marco – nei primi giorni di luglio fu abbattuto dalle artiglierie austriache (Fig. 3) in quanto veniva usato come sede di vedetta militare. La mattina del 13 giugno i soldati italiani diedero l’assalto alla quota 98, a nord dell’attuale Piazza della Repubblica; dopo aver conquistato la cima gli austriaci si 

ritirarono sulle quote 121 e 85, situate a poche centinaia di metri a nord-est delle precedenti posizioni. La linea che intersecava le cime 85 e 121 e verso sud-est si collegava al caposaldo austriaco del Monte Ermada e verso nord-ovest al caposaldo del Monte San Michele fu la linea di massima resistenza nemica per più di un anno; per poterla superare caddero migliaia di soldati e appena dopo il 9 agosto 1916,

Fig. 4 – I binari della “Ferrovia Meridionale dell’Impero” vengono tagliati in due dalla trincea Joffre che unisce la stazione alla cima di quota 98.

quando gli austriaci persero Gorizia e si ritirarono ad est del Vallone, venne occupata dalle fanterie italiane.

Appena la quota 98 fu presa definitivamente, iniziò lo scavo di una trincea che doveva unire la stazione di Monfalcone, che si trovava proprio alla base di questa altura, con la cima stessa e poi girando in quota verso ovest, tutta la linea italiana che fronteggiava quella austriaca che correva parallelamente poco più a nord.

I binari della ferrovia furono tagliati in due (Fig. 4) e la “Ferrovia Meridionale” dell’impero, che univa dal lontano 1857 Trieste all’Italia fu interrotta.

Nota: due furono i personaggi dell’Impero austroungarico artefici della costruzione della ferrovia Meridionale interrotta dalla guerra: il tedesco e triestino Carlo Ludovico von Bruck, grande manager e imprenditore prestato alla politica, che fu ministro del Commercio, Industria e Lavori Pubblici e poi anche ministro delle finanze di Vienna e l’ingegnere veneziano Carlo Ghega, cittadino onorario di Trieste e socio onorario della Imperial Regia Società Agraria di Gorizia, che fu il grande ideatore e realizzatore dell’opera.

Durante lo scavo della trincea Joffre, fu trovata una grande grotta fino ad allora senza alcuno sbocco alla luce del sole: poche centinaia di metri a nord della stazione, lungo la trincea, si aprì questa voragine di notevoli dimensioni, una fortuna! Avere a disposizione un ampio volume sotterraneo al riparo dai colpi di cannone avversari a poche centinaia di metri dalla linea del fuoco fu una agevolazione che venne sfruttata immediatamente. L’ingresso principale fu attrezzato con dei gradini scavati nella pietra e fu ricavata una seconda apertura artificiale a valle della principale, sempre lungo il percorso della trincea. Nel caso che un colpo di cannone austroungarico avesse centrato un ingresso, ci sarebbe stato il secondo per uscire.

L’interno fu ottimizzato con la creazione di vari terrapieni con sopra delle baracche in legno per ripararsi dall’umidità e dallo stillicidio della caverna. La linea trincerata in questione fu chiamata allora “Trincea Joffre” in onore dell’allora comandante in capo dell’esercito francese. La stazione di Monfalcone fu trasformata in un fortino, i combattenti dal centro città attraverso la stazione e lungo la “trincea Joffre” e il “Valloncello degli Aceri”, andavano direttamente alla prima linea.

Nei mesi successivi alla conquista della cima della Rocca e della quota 98 ogni momento libero fra i combattimenti fu usato per creare un’infinità di camminamenti e trincee lungo tutto il fronte e, in questo particolare caso, su tutto l’altopiano a nord di Monfalcone, dal rione più a ovest (San Polo), alla zona più a est (zona Mandrie, corrispondente all’attuale via delle Mandrie).

La prima linea, che fino all’agosto del 1916 andava dalla zona delle Mandrie verso nord a ridosso delle quote austriache 121 e 85 fino al monte Sei Busi sopra l’abitato di Vermegliano venne unita alle trincee più arretrate e alla città da camminamenti scavati nel calcare con rudimentali attrezzature; mazze e vanghe almeno nei primi mesi di guerra erano gli utensili principali, successivamente si videro dei compressori con i quali si velocizzò lo scavo.

Anche l’esplosivo inserito in fori praticati precedentemente venne usato per creare ripari, anfratti piccoli e grandi, pertugi dove ripararsi e riparare dai colpi nemici le munizioni, gli esplosivi e gli uomini stessi. Questo groviglio di trincee venne riparato dallo sguardo nemico con lamierini o con frasche prelevate sul terreno. Quando i soldati non trovavano niente con cui occultare la trincea erano costretti a camminare curvi per non farsi colpire dai cecchini avversi; gli spostamenti avvenivano prevalentemente di notte per non essere visti dato che qualsiasi movimento poteva essere bersaglio dei colpi di fucileria avversari.

In questa situazione, nel dedalo delle trincee era molto facile perdersi; furono frequenti i casi di soldati che, convinti di dirigersi verso le retrovie, sbagliarono direzione e si trovarono in faccia al nemico sulla prima linea. Per ovviare a questo problema, nei punti dove le trincee si incrociavano creando dubbi sulla direzione giusta da prendere, vennero apposte delle targhe direzionali con indicato dove portava quella trincea. Queste “indicazioni stradali” potevano essere fatte con delle tavole di legno, e in questo caso oramai scomparse, oppure incise su una base di calcestruzzo. In questo secondo caso sono giunte fino a noi e un bel esempio di queste è la targa con tanto di freccia direzionale con scritto “A Monfalcone italiana ” situata in un incrocio fra trincee nella zona di quota 121.

Persa Monfalcone, gli austroungarici tentarono un’incursione punitiva contro la città: il 14 agosto 1915, un treno blindato armato con artiglierie leggere, scese silenziosamente dal viadotto di Aurisina e di seguito da quello di Sablici, si avvicinò, senza che nessuno se ne accorgesse, alle prime case della città e al punto dove la linea ferroviaria era interrotta davanti alla stazione. Sparò diversi colpi sulle abitazioni prima di scomparire velocemente da dove era arrivato, in retromarcia.

I treni blindati durante la grande guerra furono un’arma usata in molte occasioni anche se non furono mai determinanti per l’esito finale di alcuna battaglia. Nel settore dell’Isonzo furono destinati dagli austriaci due treni blindati, per fornire un appoggio mobile alle artiglierie; uno era il “I.R. nr. V” e l’altro “I.R. nr. II”; l’armamento di questo secondo treno, che fu impiegato nel raid di Monfalcone, era composto da un cannone a tiro rapido da 7 cm e da uno sempre a tiro rapido da 47 mm, le sei mitragliatrici “M7” originariamente montate sul treno furono smontate ad Aurisina e distribuite ai reparti di fanteria come difesa antiaerea. L’equipaggio del treno era composto da trenta uomini del reggimento di fanteria “Hoch-und Deutschmeister nr. 4”, glorioso reggimento di soldati provenienti dalla città di Vienna.

L’attacco presentava un notevole rischio: l’intero percorso della ferrovia da Aurisina a Monfalcone era sotto il tiro dei grossi calibri italiani che, sistemati su alcuni pontoni a “Punta Sdobba”, sparavano verso le postazioni austriache. Senza emissione di vapore e a luci spente, il treno riuscì ad entrare in stazione e ad uccidere diversi soldati e fare molti danni con i cannoni a tiro rapido; gli italiani, infatti, furono presi di sorpresadato che erano in corso delle operazioni di carico materiali da spedire su rotaia e nessuno si aspettava di trovarsi nelle vicinanze due cannoni austriaci a tiro rapido.

Dal giugno 1915 all’agosto 1916 le fanterie italiane cercarono di prendere le quote strategiche 85 e 121 a nord-est della città, fondamentali per evitare episodi analoghi; migliaia furono i morti senza ottenere alcun successo.

Successivamente a questo blitz, un altro tentativo importante di riprendersi Monfalcone, la Rocca, le officine Adriawerke e Porto Rosega fu messo in atto dagli austriaci nel maggio 1916.

Il giorno prima di scatenare la famosa Strafexpedition, il 15 maggio 1916 nel Tirolo meridionale, gli austroungarici organizzarono una azione diversiva nel basso Isonzo con l’intento di portare più a ovest la linea di difesa riprendendosi posizioni strategiche importanti a ridosso di Monfalcone.

In questa occasione, l’operazione fu organizzata in collaborazione fra marina austroungarica ed esercito. Inizialmente, i velivoli dell’aerostazione Imperial Regia di Trieste dovevano bombardare le officine Adriawerke e di seguito i reparti della 106a divisione, il I battaglione del 27° reggimento di fanteria e il 30° battaglione della 187a brigata Landsturm austriaci dovevano prendere all’assalto le posizioni italiane.

Alcuni problemi bloccarono il decollo degli aerei e solo uno, pilotato dal tenente Banfield, riuscì a sganciare una grossa bomba sull’obiettivo. I Landsturm attesero l’arrivo degli altri aerei che non avvenne, l’effetto sorpresa svanì e furono occupate solo poche irrilevanti posizioni.

Il giorno seguente il VI reggimento Landsturm assieme al 152° battaglione Landsturm diede l’assalto al versante nord della Rocca facendo 160 prigionieri italiani. Fu anche occupata una parte della trincea italiana detta “del Tamburo” poco a ovest della quota 121.

In questi due giorni, i reparti austriaci diedero fondo a tutte le loro risorse fisiche e, decimati dalle perdite di circa 1300 uomini, l’impeto iniziale andò scemando e l’obiettivo principale di far avanzare la linea di difesa fallì.

Il quattro agosto 1916, pochi giorni prima dell’inizio della battaglia che avrebbe portato alla conquista di Gorizia il generale Cadorna, comandante in capo delle truppe italiane, ordinò un’azione diversiva sul settore di Monfalcone ed esattamente contro le cima 85 e 121; l’azione aveva lo scopo di distogliere truppe austroungariche dal settore principale dello sfondamento.

L’avanzata fu affidata alla 16a e alla 14a divisione, rinforzate dalla I divisione di cavalleria appiedata. L’arma innovativa che secondo gli alti comandi sarebbe stata determinante per la conquista delle cime era la “bombarda”, da poco creata, una specie di mortaio a tiro curvo il cui proiettile, esplodendo sopra i reticolati e i cavalli di frisia nemici, li spazzava via permettendo alle fanterie di andare all’assalto senza avere ostacoli in cui impigliarsi.

Dopo vari tentativi infruttuosi di prendere le due cime, il 6 agosto gli alti comandi decisero un ulteriore tentativo di prendere la sola quota 85, alle 15.30 mandarono all’assalto della maledetta quota tre battaglioni di bersaglieri ciclisti; in uno di questi, esattamente nel III battaglione, c’era Enrico Toti, ferroviere romano che in un infortunio sul lavoro aveva perso una gamba; con il suo handicap avrebbe potuto evitare di andare in guerra, ma non ne volle sapere e superando innumerevoli ostacoli dovuti alla sua menomazione riuscì ad arruolarsi come volontario nel terzo battaglione bersaglieri ciclisti, un corpo d’elite che era sempre in prima linea nei punti caldi del fronte. Pur essendo assegnato a compiti secondari, lontano dalle prime linee, appena poteva, cercava di portarsi nel fulcro della battaglia a dare il suo contributo.

In quella occasione volle caparbiamente seguire i suoi commilitoni a quota 85, sopra Monfalcone; fu subito in trincea fra i primi, lottando tenacemente. Ferito, continuò a lottare, incitando i suoi commilitoni; ferito una seconda ed una terza volta, cadde lanciando al nemico la sua gruccia. La sua salma, deposta inizialmente nel cimitero di Monfalcone, il 24 maggio 1922 fu trasportata a Roma, dove ricevette solenni funerali. Questo il mito fra storia e leggenda.

Fig. 5 – Il cimitero di guerra che allora si trovava vicino all’attuale Liceo cittadino. Qui fu sepolto Enrico Toti.

Durante la grande guerra Monfalcone era disseminata di cimiteri di guerra, i caduti della prima linea, anche attraverso la trincea, venivano portati nell’abitato per essere inumati. Il cimitero più importante era situato pressappoco dove adesso c’è il parcheggio del liceo cittadino (Fig. 5). Proprio qui fu sepolta anche la medaglia d’oro Enrico Toti e vi rimase fino a quando, nel primo dopoguerra, tutti i cimiteri delle retrovie del fronte furono eliminati e i corpi dei caduti furono raccolti in pochi ma capienti cimiteri-mausoleo dove avrebbero potuto essere dignitosamente onorati.

Lungo le trincee, un occhio attento può trovare ancora oggi testimonianze dei soldati che le avevano presidiate. Semplici scritte con il nome del fante, la sua città di origine, il reggimento di appartenenza con il mese e anno corrente, sono le incisioni più comuni che si possono trovare assieme a rappresentazioni grafiche di vita di guerra. Dopo più di cento anni sono ancora lì, a testimonianza di quei tragici eventi. Una delle incisioni più significative è una scritta che si trova lungo la trincea Joffre: alla base di una postazione di mitragliatrice vi è scritto VIVA LA PACE. Chi incise quella frase rischiò la fucilazione sul posto. Non era tollerata in alcun modo l’istigazione al disfattismo e al pacifismo: chi era sorpreso a sobillare i commilitoni contro la guerra e a favore di una immediata pace poteva essere fucilato immediatamente dall’ufficiale superiore senza alcun processo.

Dopo la caduta di Gorizia il 9 agosto 1916 e delle quote 121 e 85 le truppe austroungariche si ritirarono più a est oltre il “Vallone” (depressione dell’altopiano carsico che inizia pochi chilometri a sud di Gorizia e arriva fino quasi al mare a est di Monfalcone). Da quel momento la città divenne retrovia, la linea del fuoco non si trovava più a poche centinaia di metri, ma oltre le paludi del Lisert e alla cima di Moschenizze a un paio di chilometri di distanza.

Il 24 ottobre 1917 la II Armata comandata dal generale Capello, cedette e si disgregò lungo tutto il fronte a essa assegnatole, cioè da Gorizia fino a Plezzo (attualmente in Slovenia). Le truppe austroungariche, alleate a quelle germaniche, sfondarono a Caporetto e con tecniche di combattimento innovative per l’epoca arrivarono in pochi giorni prima a Cividale, poi a Udine, al Tagliamento e infine al Piave. In questa irresistibile avanzata tentarono di aggirare e prendere in una sacca la III Armata del Duca d’Aosta che fino a quel momento presidiava il fronte da Gorizia al mare. Non ci riuscirono. La III Armata si ritirò ordinatamente verso il Piave senza sbandamenti e defezioni, continuando a compiere il suo dovere sulla nuova linea arretrata. Per questo episodio questa Armata passò alla storia come “Invitta”.

Fig. 6 – I soldati austroungarici rientrano nella piazza di Monfalcone dopo lo sfondamento di Caporetto.

I giorni successivi al 24 ottobre 1917 gli austroungarici rientrarono a Monfalcone e si ripresero la città fino al novembre 1918 (Fig. 6) quando l’impero austroungarico, perdendo la battaglia di Vittorio Veneto iniziata il 24 ottobre, si disgregò perdendo la guerra.


Ringraziamenti

Voglio ringraziare il dott. Marco Mantini per i suoi suggerimenti e la lettura critica del presente lavoro. Ringrazio Pierpaolo Russian per la concessione delle fotografie tratte dal suo archivio, non dimenticando l’aiuto di Millo Maria Luisa, mia moglie.

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